Nuova Zelanda, un viaggio di nozze all’altro capo del Mondo
Siamo stati in Nuova Zelanda con una bella estensione alle Isole Cook per il nostro viaggio di nozze a gennaio del 2013.
Siamo partiti con volo Singapore Airlines, con un unico scalo a Singapore sia all’andata che al ritorno. La partenza è stata da Malpensa, l’arrivo in loco all’International Airport di Auckland che, benché non sia la capitale, è la città più grande e vivace della nazione.
Primo consiglio personale: quando si vola verso est con un fuso orario così ‘importante’ è meglio partire dall’Italia quando qui è mattina. Quando arriverete in Nuova Zelanda (ma anche verso la costa est dell’Australia) saranno passate circa 24 ore dalla partenza, ma l’ora locale sarà notturna, voi sarete esausti per il viaggio e vi verrà naturale andare a dormire anche solo per qualche ora. Il jet lag sarà notevolmente inferiore a quando arrivate nel nuovo continente in pieno giorno o – peggio – al mattino presto, e dovete aspettare tutto il giorno per poter andare a nanna.
Detto ciò, trascorriamo la prima notte in hotel attaccati all’aeroporto – localmente è circa mezzanotte all’arrivo – e la mattina dopo noleggiamo presso Hertz (unica nota negativa: l’impiegato ci appioppa un’assicurazione che in Italia non avevamo chiesto e che viene scalata direttamente dalla carta di credito, limitandoci il budget. La Hertz ad oggi non ci ha ancora fatto avere nessuna fattura) e iniziamo il tour dell’Isola Nord.
Lasciamo la zona di Auckland, che rivedremo al ritorno, e ci dirigiamo verso Nord-Est, nella penisola di Coromandel. Il tempo è bello, ci sono 22-23 gradi: in Nuova Zelanda ovviamente è piena estate, anche se meno calda e afosa della nostra.
I paesaggi costieri e interni si mostrano subito per il loro splendore e la ricchezza di fauna e flora. Colori vivissimi ci accerchiano, ogni tre minuti ci fermiamo per fare foto.
Una cosa salta subito all’occhio: le pecore. Le pecore in Nuova Zelanda sono ovunque e tantissime. Ce ne sono circa quaranta milioni (contro quattro milioni e mezzo di persone). I pascoli rigogliosi non mancano e gli ovini brucano indisturbati su prati parcellizzati (cioè: su tot metri quadri, possono brucare solo tot ovini, per garantire loro qualità del cibo e, di conseguenza, buona lana).
Facciamo una sosta breve a Coromandel, cittadina un po’ bohemien dove facciamo la nostra prima incursione in un supermercato locale, con mia grande gioia, e compriamo snack vari per il pranzo – che non ci danno grande soddisfazione devo dire -.
Intanto scopriamo i simboli di questa terra, sulla quale convivono perfettamente lo stile coloniale inglese (quanto a case, strade – si guida sul lato sinistro della strada – ed educazione sembra di stare in Inghilterra) e la cultura maori, valorizzata in ogni dove, con doppia traduzione di ogni scritta: il kiwi soprattutto, sia il frutto che l’uccello notturno.
Continuiamo verso la Bay of Plenty ma ci fermiamo nuovamente a Hot Water Beach, una spiaggia dove l’attività geotermica si rivela facendo letteralmente bollire l’acqua nelle pozze scavate sulla spiaggia. L’effetto è spettacolare.
Ti puoi scavare la tua piscina idromassaggio nella sabbia, e la terra farà bollire l’acqua! In certi punti l’acqua e così calda che non si riesce a tenere i piedi.
L’attività geotermica della Nuova Zelanda è intensissima e molto estesa, per certi versi anche preoccupante. Ci sono moltissime aree occupate da solfatare, aree termali, spa naturali e vulcani.
Il giorno dopo infatti, raggiunta Whakatane, ci imbarchiamo alla volta di White Island, un vulcano attivo – ebbene sì – a cinquanta km dalla costa. E’ l’escursione che da sola vale il viaggio.White Island è un isolotto composto praticamente solo dal cratere di un vulcano attivo.
Appena arriviamo, ci portano dalla barca a riva con un gommone. Scesi, la guida ci spiega di seguire esattamente i suoi passi, perché i gas imprigionati nel sottosuolo possono fuoriuscire in ogni momento, e poi ci fa percorrere un paio di km a piedi nel paesaggio più strano che io abbia mai visto. Direi ‘lunare’, ma sulla Luna non ci sono mai stata… perciò non ho la certezza che sia uguale. Grigio e giallo, di zolfo, dappertutto.
Pozze di fango bollente, emissioni gassose importanti emesse dal cratere e infine, come nella migliore delle tradizioni, una miniera di zolfo dismessa, deturpata dall’ultima eruzione.
Si può raggiungere White Island anche in elicottero, ma per noi era troppo costoso (600 dollari). La gita in barca invece, pranzo compreso, ne è costata 220 in due, e bisogna tener presente che all’andata abbiamo incrociato da vicino i delfini!
Per il resto della zona, direi che Whakatane è una cittadina ridente e provvista di tutto, anche se i ristoranti ci hanno lasciato un po’ a bocca asciutta. Sono pochi e con poca scelta. Abbiamo pernottato al Livingstone Motel, prezzo ragionevole per una camera ampia con vasca idromassaggio personale. Le soluzioni comunque abbondano, per tutti i gusti e tutte le tasche.
Il giorno seguente ci dirigiamo a Rotorua, vero cuore pulsante dell’Isola Nord, emblema della cultura maori e centro nevralgico dell’attività geotermica.
La città è immersa in una strana atmosfera ‘da mare’, ma è al centro dell’isola. Il caldo proviene infatti dalla terra. Rotorua è circondata da villaggi maori e da spa naturali.
Merita una visita la Polynesian Spa, anche se non siete amanti del genere. Pozze d’acqua all’aperto con percorsi in acqua che passa dai 36 ai 42 gradi.
Il centro è ricco di negozi, locali e motel per tutti i gusti. Ci siamo fermati a dormire per due notti, e nel nostro hotel abbiamo incontrato diverse famiglie di maori autentici in vacanza – con i tatuaggi e tutto il resto, che giocavano in piscina con i bambini.
Il giorno dopo ci concediamo una puntata a Waitomo, dove facciamo una suggestiva visita alle grotte dove vivono le lucciole. La visita avviene nel buio più completo su una barca guidata da un/una maori, che attraversa le grotte sotterranee.
Nella zona di Rotorua meritano anche le diverse zone termali dei dintorni. Noi abbiamo scelto Wai-o-tapu, ma anche Orakei Korako deve essere spettacolare.
Quando si accede al parco naturale, si entra in un altro mondo. La terra sbuffa da ogni crepa, pozze di fango bollente e colori accecanti ti lasciano letteralmente senza fiato, tanto che una zona è specificamente chiamata Artist’s palette. I minerali lasciati in superficie dalle eruzioni o dall’attività geotermica colorano il suolo. Da non perdere anche la Champagne Pool.Decidiamo quindi di puntare a sud e di attraversare tutta l’isola ammirando panorami splendidi, ivi compresi quelli del Tongariro National Park, che ospita tre dei vulcani più attivi della nazione, e del lago Taupo (che ovviamente ha origine vulcanica).
Arriviamo alla capitale, Wellington, nel tardo pomeriggio. La città è molto carina e pulita, ma nessuna guida ti dice che è una città ventosissima. C’è sempre il vento, tutti i giorni.
Per gli abitanti è normale, ma per te, che arrivi da Rotorua, il vento e l’abbassamento di temperatura sono uno shock, e ti rompono pure un po’ le scatole.
La spiegazione d’altronde è semplice: Wellington si trova proprio all’imbocco dello stretto fra le due isole che compongono la Nuova Zelanda. Quindi ‘c’è corrente’.
Poi i locali ti spiegano che gli aerei fanno fatica ad atterrare e altre amenità, compresa che ovviamente i prezzi sono un po’ superiori alla norma… e tu il giorno dopo sei sul traghetto per raggiungere l’isola Sud.
Nota: le auto a noleggio non possono attraversare lo stretto. Si deve lasciare l’auto al ferry terminal di Wellington e se ne prenderà una nuova a Picton, dall’altra parte. La traversata dura circa tre ore e mezzo, il mare è calmo anche se il tempo non è granchè. L’ultimo tratto del percorso tuttavia è davvero spettacolare perché la nave si incunea nel fiordo di Picton e i paesaggi sono mozzafiato.
Arrivati nell’isola Sud, potete contare su due cose: l’abbassamento delle temperature – tenete conto che essendo nell’emisfero australe, tutto è al contrario: più si va a sud, più fa freddo – e incontri ravvicinati con una fauna che avete solo visto sui libri.
Prendiamo la macchina con destinazione Kaikoura, meta degli escursionisti amanti delle balene. Per la strada ci fermiamo due volte perché sulla spiaggia e sugli scogli, a pochi passi, sonnecchiano le foche. Abbiamo fatto centinaia di foto, poi impariamo che lì è normale.
Kaikoura è carina, ma è quasi sera e i negozi sono chiusi. Prenotiamo per l’indomani una bellissima gita di whales whatching, che non mi godrò appieno in quanto, la sera, cenando, probabilmente mangio qualcosa che mi fa male, passo una nottataccia e l’indomani salire su una barca jet non aiuta il mio stomaco. Però vediamo le balene!
Da questo punto in poi il viaggio prende una piega estremamente faunistica: ci dirigiamo verso Christchurch, pesantemente devastata dai due terremoti del 2010 e 2011, con i negozi del centro storico nei container; scendiamo fino a Dunedin e nella penisola di Otago, regno incontrastato di pinguini, sia blue che yellow-eyed, leoni marini (!), foche e albatross reali, nell’unica colonia nidificante del continente Oceania.
E’ ammirevole come l’uomo cerchi di preservare la natura e crei zone di protezione della fauna locale, con barriere e cartelli esplicativi sulle abitudine delle specie e su come comportarsi per rispettarle.
Arriviamo fino all’estremo sud, ai Catlins, dove i paesaggi mozzafiato ci ripagano della strada fatta e della totale assenza di possibilità di comunicare (nessun segnale per i cellulari e wi-fi).
L’ultima tappa prima di risalire è Invercargill, sonnecchiante cittadina all’estremo Sud, dove partono le navi per il polo e dove si trova il famoso cartello con le distanze delle maggiori città mondiali. Attenzione però: per raggiungerlo bisogna fare una camminata di circa quaranta minuti, e pur essendo estate piena ci sono 6 gradi!
Di ritorno dalla Cook ci fermiamo ancora tre giorni ad Auckland, vero cuore pulsante della nazione. La scopriamo per una città pulita e con servizi efficienti, molto vivibile e girabile anche a piedi. Il porto – è ‘la città delle vele’ – è la zona più caratteristica, piena di ristoranti e locali. Ci sono anche molti ristoranti italiani, con veri italiani che ci lavorano e che, quasi sempre, sono contenti di fare due chiacchiere perché da quelle parti non si vedono molti nostri connazionali.
In conclusione, anche se il viaggio è lungo e stancante, sono felice di aver visitato questo angolo di Mondo. Gli standard di vita sono piuttosto alti e, comunque, molto simili a quelli europei, in particolare britannici. Questo conferisce un’idea di sicurezza in un sistema riconosciuto che permette di godersi appieno la vacanza.
Per quanto riguarda il cibo: l’agnello va per la maggiore, come potete immaginare. Ma ci sono svariate possibilità anche per insalate, pesce e manzo, anche questo abbondantemente presente sulle isole. E poi cozze enormi. Da segnalare che quasi tutti i posti in cui siamo stati, anche pub di piccole cittadine o nei buffet di colazione degli hotel, riportano sul menu i piatti adatti a celiaci e vegetariani. Hanno quasi sempre almeno un’opzione per entrambi e c’è del pane per celiaci golosissimo.